Quanto si può crescere cambiando modello di sviluppo
Onu, Ocse e governi sono d’accordo: l’unica alternativa per salvare il pianeta è l’economia circolare. A Davos, a gennaio, ne è stato stimato il valore potenziale: 3.000 miliardi di dollari nel mondo; 88 miliardi solo in Italia, con un bacino di 575 mila occupati, secondo l’ultimo bilancio del Conai, il Consorzio nazionale degli imballaggi. Vuol dire che si può crescere cambiando modello di sviluppo.
L’evoluzione di prodotti ecosostenibili
Quanto potenziale ci sia nell’economia circolare lo dimostra il mondo sempre più numeroso delle startup e delle aziende che innovano sui prodotti esistenti e sulla loro modalità di produzione. Solo rimanendo in Italia, c’è per esempio il filo in nylon riciclato prodotto da Aquafil e utilizzato anche da Adidas per i suoi costumi. Le traverse ferroviarie realizzate utilizzando pneumatici dismessi e plastica da rifiuto urbano di GreenRail. Il lanificio Bellucci di Prato utilizza lana 100% rigenerata, e proprio a Prato, dove si lavorano stoffe da oltre mille anni, già nel secolo scorso era stato lanciato il primo (e inconsapevole) un modello di produzione sostenibile con la lana rigenerata: materia prima che scarseggiava e che quindi veniva «stracciata» per poi essere recuperata nella produzione di nuovi abiti. L’azienda bergamasca Grifal produce «Il cartone ondulato», totalmente riciclabile e così resistente da poter sostituire il polistirolo o altri materiali chimici da imballaggio. Lo scorso giugno l’azienda si è quotata all’Aim e dopo un solo mese il valore delle sue azioni ha registrato un più 160%. C’è la Novamont, l’azienda italiana che ha creato la plastica biodegradabile, utilizzata sia per le buste della spesa sia in agricoltura: i teli per la pacciamatura si «compostano» nel terreno senza lasciare residui nocivi. Contro l’obsolescenza programmata, un’azienda olandese ha progettato lo smartphone Fairphone, costruito per essere riparato: è modulare e ogni pezzo può essere sostituito facilmente. Costa 399 euro e le materie prime non provengono da zone di conflitto.
Riconversione dell’industria globale: i costi
È chiaro che per invertire direzione l’industria globale dovrebbe riconvertirsi. Ma quanto costa? Gli studi non lo dicono. Alcuni Stati hanno provato a calcolarlo: il Regno Unito stima un costo pari al 3% del suo Pil. Eppure i cittadini apprezzano e sostengono le produzioni sostenibili. Secondo l’analisi realizzata da PwC insieme a Centromarca e IBC, nel 2019 i consumatori di tutto il mondo ricercheranno sempre più alternative salutari e naturali e i valori etici influenzeranno le decisioni d’acquisto. I numeri: il 37% del campione vuole prodotti con packaging eco-friendly; il 41% dichiara di evitare il più possibile l’utilizzo di contenitori di plastica; più di due terzi dei consumatori è disponibile a pagare un prezzo più alto per prodotti a km zero; il 42% pagherebbe di più per prodotti ecosostenibili; il 44% è attento all’origine e vuole sapere se il bene è stato prodotto eticamente.
Buone intenzioni ma nessuna normativa di sistema
E allora perché, oggi, solo il 9% della produzione è «circolare»? Che cosa resta, a conti fatti, degli studi e delle proiezioni economiche? Ci sono le certificazioni e i premi per i prodotti più «virtuosi», come quella Cradle to Cradle – «Dalla culla alla culla» –, per prodotti progettati in alternativa al modello «dalla culla alla tomba», che identifica prodotti ad alto spreco e zero riutilizzo. C’è una direttiva europea, la 2014/95/UE, in Italia recepita alla fine del 2016, che ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società quotate, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l’obbligo di rendere note le loro politiche di sostenibilità ambientale, sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e dei rischi. Il tutto secondo il principio del «Comply or explain»: chi non fa nulla deve spiegare il perché. Esistono poi dei programmi come il CE100, della Ellen MacArthur Foundation, che riuniscono le aziende più impegnate sul fronte degli obiettivi ambientali e le promuove. Ma alla fine una normativa di sistema non c’è e la maggior parte dei prodotti sono progettati per durare il meno possibile.
I profitti del petrolio cancellano il «solare»
Nel campo delle energie rinnovabili il motore trainante è l’Europa, la nostra Enel è leader nel mondo, e nel mercato sono entrati i pannelli riutilizzabili, ma oggi sono solo un quinto della produzione globale di energia. Un esempio su tutti racconta come continua a girare il mondo: l’Arabia Saudita aveva annunciato il più grande impianto di energia solare del pianeta. L’obiettivo del programma da 109 miliardi di dollari era quello di generare dal solare un terzo del fabbisogno energetico del Paese entro il 2032. Erano sei anni fa, nulla è stato fatto. Perché? Quando nel 2016 il barile era sceso a 27 dollari, per il regno saudita la transizione alle rinnovabili sembrava ormai imprescindibile, ma appena il prezzo del petrolio è salito, l’urgenza è svanita. L’unica vera pressione, oggi, arriva dalla consapevolezza degli adolescenti di tutto il mondo, che chiedono di avere un futuro abitabile… mentre i loro padri glielo stanno cucinando a fuoco lento.
FONTE: DATAROOM-CORRIERE.IT